Walter Fuochi firma su la Repubblica un editoriale dal titolo: «Milano nell’Europa che conta, così Messina l’americano sveglia la bella addormentata». Ecco alcuni passaggi.
È Messina l’uomo chiave di questa rigogliosa rinascita, il migliore di quanti nel Belpaese vanno in panchina, per opinione unanime, stratega sommo da palestra e pastore d’anime che l’età non ha reso un dittatore meno esigente, ma ammorbidito, ai suoi bei 62, nei modi, nei rapporti, nella digestione delle sconfitte.
A Milano è alla seconda stagione, la prima fu un compromesso complicato fra quel che dentro l’Olimpia ci trovò, e quel che ci aggiunse, non tutto azzeccato.
Tardando a realizzarsi la fusione, non gli spiacque che il Covid e la politica troncassero quell’annata come un coitus interruptus. Poteva vincervi o perdervi, avendone troppi dubbi. Di più, sinistri sospetti sui possibili epiloghi.
In estate ha molto rifatto la squadra, sommando veterani come Hines, Delaney e Datome, levati alle concorrenza, ma azzeccando pure talenti in sboccio come Punter, Leday e Shields, ad allargare una rosa che molto avrebbe dovuto spendersi su una stagione logorante.
Tanti viaggi, diversi infortuni, qualche morso del virus, i conti sono già stati salati e comunque siamo solo a due terzi del viaggio: potrebbero esserci, andando tutto bene, un’altra trentina di partite. Quasi tutte di playoff, con minimi margini di rimedio.
Un giorno Maggi deve scrivere un articolo approfondito (se l’ha già fatto chiedo perdono, me lo sono perso) sul significato di Mack: cosa ci vedeva Messina, cosa non è tornato. Perché gli acquisti di quest’anno sono allucinanti come precisione e lungimiranza, il contrato con l’anno scorso è stordente per alcuni giocatori.